Il Buddha di Harold Pinter

Il Buddha di Harold Pinter

Per decenni in tanti hanno cercato significati reconditi in oggetti di uso quotidiano che Pinter amava inserire nelle sue opere.

Curiosità che, nel 1966, attanagliò anche un gruppo di studenti inglesi tanto da far prender loro in mano carta e penna e scrivere ad Harold per avere delucidazioni su alcuni particolari de “Il Guardiano”.

Scritta nel 1959 e andata in scena nel 1960, l’opera si svolge in un piccolo tugurio pieno di inutili cianfrusaglie, spifferi e infiltrazioni d’acqua piovana dove si snodano le vicende dei tre improbabili personaggi: due giovani fratelli, di cui uno psicolabile perseguitato dal ricordo di un soggiorno in manicomio dove subiva l’elettroshock, e di un barbone che cerca di sistemarsi in quella loro piccola casa nella zona ovest di Londra.

Ricevuta la missiva, Harold rispose a tutti i loro quesiti. Una lettera decisamente sarcastica, ritrovata solo una decina di anni fa quando, nel corso di un’asta, scivolò da una prima edizione de “Il Guardiano” che un fortunato si aggiudicò per 360 sterline.

Alla domanda degli studenti se gli oggetti presenti ne il “Guardiano” avessero un significato particolare Pinter scrisse: “Il Buddha è un Buddha. Il capanno è un capanno”. E ad una richiesta sul perché il personaggio centrale, Davies, avesse un nome falso, Pinter rispose: “Il suo nome è falso perché è falso”. Perché i due fratelli protagonisti si vedono raramente? “Perché raramente si incontrano” fu l’ovvia risposta! E che metafora nasconde il continuo armeggiare di Aston con le prese elettriche? Nessuna metafora: “Aston armeggia con le prese elettriche perché gli piace farlo”.

E dopo aver soddisfatto tutte le curiosità degli studenti, li salutò augurando loro ogni bene e assicurandoli che le risposte non intendevano essere in alcun modo divertenti.

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