Si sa, le prime rappresentazioni delle opere di Harold Pinter furono stroncate dai critici.
Salvo rare eccezioni, tutti scrissero che era un autore eccentrico, inaccettabile e incomprensibile.
E chissà, forse gli stessi critici cominciarono ad usare quel termine, che oggi è entrato nei vocabolari, perché non sapevano a quali aggettivi ricorrere per spiegare uno stile spesso inafferrabile, per l’impossibilità di ridurre i suoi lavori a schemi abituali e a trame raccontabili. Pinteresque appunto.
Pinteresque: aggettivo. Simile o caratteristico delle opere del drammaturgo inglese Harold Pinter, in particolare contraddistinto da un senso di minaccia e caratterizzato da dialoghi con molte pause.
Così il prestigioso English Oxford Ditionaries definisce lo stile di Pinter, stile poi riassunto dagli accademici di Stoccolma, che nel 2005 assegnarono il Nobel al drammaturgo britannico, come “una modalità assolutamente originale per svelare il baratro sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringerci a entrare nelle chiuse stanze dell’oppressione”.
E così Pinteresque è entrato nel linguaggio collettivo, al pari di beckettiano, kafkiano e proustiano… peccato che Pinter sia sempre stato piuttosto infastidito dall’onnipresenza di quel termine – come anche dalla definizione di “Master of Pause” – negli articoli che lo riguardavano: “quello che scrivo è ciò che scrivo”, ripeteva spesso.
E quando nel 1983, in occasione della presentazione del film “Betrayal”, un giornalista gli rivolse una domanda sottolineando come dalla disamina della critica il suo teatro non potesse che essere definito “pinteresque”, lui rispose: “Non sono mai riuscito a capire cosa intendessero per ‘Pinteresque‘… Ma in realtà non sono un analista, l’analisi è una procedura scientifica e quello che faccio io è creativo, non parte dalla stessa parte della mente…”
E quell’allergia agli stereotipi e all’inconsistenza di alcune formule è magistralmente, e ironicamente, riassunta in un aneddoto che Pinter amava spesso raccontare.
“Una volta, parecchi anni fa, mi sono trovato in mezzo a una discussione in pubblico a proposito di teatro. Uno mi ha chiesto di che cosa parlavano le mie commedie. Ho risposto senza pensarci tanto, tanto per troncarla lì, e ho detto: ‘della donnola sotto il mobile bar. Che sbaglio! Per anni e anni ho visto questa espressione citata in non so quante recensioni. Ora sembra voglia dire chissà cosa, ha acquisito un significato profondo e passa per una osservazione acuta e sensibile a proposito del mio lavoro. Per me non voleva dire assolutamente niente”
Ph theguardian.com